Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei.
PRIMA LETTURA: Ger 1,4-5.17-19
Ti ho stabilito profeta delle nazioni.
SALMO (SAL 70)
La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
SECONDA LETTURA: 1Cor 12,31-13,13
Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità.
“In quel tempo,
Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che
voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che
uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma
egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura
te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella
tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene
accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in
Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e
ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato
Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in
Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non
Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si
alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli,
passando in mezzo a loro, si mise in cammino.”
La liturgia della parola di Dio di questa domenica quarta
del tempo ordinario ci offre tra i testi da meditare il celebre inno alla
carità di San Paolo Apostolo. Nella seconda lettura di questo giorno santo noi
leggiamo, infatti, questo canto meraviglioso all’amore, al vero amore,
all’amore che attinge il suo significato più profondo da Dio che è amore
infinito.
L’apostolo delle Genti, in questo stupendo brano della sua prima lettera ai Corinzi
ci prende per mano, per il cuore e soprattutto nella mente per farci capire il
valore dell’amore cristiano, che è la virtù teologale della carità, che è il
dono più grande che il Signore ci ha fatto e che noi dobbiamo possedere o
cercare di possedere a tutti i costi. Altro desiderio ed altra aspirazione
nella nostra vita non ci può essere e non ci deve essere. Impregnati di carità,
impegnati nella carità, immersi totalmente nell’amore che dà gioia e sa
adeguatamente rapportarsi con tutti, nella pazienza e nella tenerezza.
Ecco perché l’Apostolo elenca una serie di attributi o qualità della virtù
della carità. Essa è magnanima, benevola, non è invidiosa, non si vanta, non si
gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si
adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si
rallegra della verità. Per tutti questi attributi e connotazioni, la carità
tende a scusare tutto, a credere a tutto, a sperare in tutto, a sopportare ogni
cosa. Il valore infinito di questa virtù sorpassa il tempo presente e si
colloca al suo giusto posto, nell’eternità. La carità, infatti, non avrà mai
fine. Tanto è vero, scrive l’Apostolo Paolo, tre cose abbiamo di bello su
questa terra, e sono la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di
tutte è la carità, perché non cesserà, ma sarà la nostra stessa vita
nell’eternità.
Questa carità ha un altro importante nome che si coniuga con la nostra vita su
questa terra ed ha attinenza con la vita nascente, crescente e morente ed è
l’amore.
Nella domenica in cui noi cattolici italiani celebriamo la giornata nazionale della vita, risulta di grande insegnamento quello che ha scritto il profeta Geremia e che noi leggiamo come primo brano della liturgia della parola di questa prima domenica del mese di febbraio 2019: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Per quello che dovrà dire il profeta in nome di Dio, gli fanno guerra, ma non lo vinceranno i suoi avversarsi, in quanto il Signore è dalla sua parte, lo protegge, lo difende, lo incoraggia a parlare apertamente”.
Nell’Antico Testamento i profeti sono stati avversati ed
uccisi, nel Nuovo Testamento spetta la stessa sorte a Gesù, il Messia, il
Figlio di Dio. Anche lui è rifiutato dagli stessi suoi concittadini di
Nazareth, ai quali parla in termini espliciti, in quanto non si convertono e
non sono riconoscenti verso Dio per i benefici che il Signore concede
abbondantemente loro. Il discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth, dopo aver
letto il rotolo del profeta Isaia ed aver applicata a sé quello che aveva
anticipato il profeta, molti secoli prima. Egli rivolto a chi ascoltava nel
luogo sacro, disse: “Nessun profeta è
bene accetto nella sua patria”. E fa dei precisi riferimenti biblici, ben
conosciuti dai presenti. “C’erano molte
vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e
sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu
mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi
in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se
non Naamàn, il Siro”.
La conseguenza del suo ragionare che invita alla conversione e alla
riconoscenza a Dio è che “all’udire
queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo
cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul
quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”. In poche parole lo
volevano uccidere già allora, dopo quel discorso. Parole dure, non accettate,
ma parole vere e coraggiose che solo Gesù poteva rivolgere loro senza paura ed
angoscia per il suo futuro. Infatti, dopo questa evidente contestazione nei
suoi riguardi egli passò tranquillamente in mezzo a loro e continuò il suo
cammino, la sua missione itinerante.
La corrispondenza tra il discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth e la
realtà di tutti giorni, in cui i veri profeti di Dio dicono la verità e
denunciano il male, sono sempre avversati ed ostacolati, a partire proprio da
quegli ambienti dove la parola di Dio, la correzione, la verità e la
rettitudine morale dovrebbero essere alla portata di tutti.
Penso in questo momento alla voce profetica di Papa Francesco, spesso avversato
e contestato negli stessi ambienti cattolici, nei quali il suo insegnamento
dovrebbe essere accolto ed accettato acriticamente, essendo il Romano
Pontefice, il Vicario di Cristo sulla terra, il Vescovo di Roma ed il capo del
collegio apostolico, invece viene frequentemente attaccato ed osteggiato
proprio in quegli ambienti religiosi e cattolici, in cui le parole del Papa
risultano essere forti e contrastanti con il loro modo di intendere il Vangelo.
In fondo cosa dice il Papa se non quello che ha detto Cristo proprio nella
sinagoga di Nazareth? A chi lo dice, a partire proprio da chi dovrebbe avere
maggiore dimestichezza con la conoscenza del Vangelo, che non lascia libertà di
interpretazione di fronte alle opere di misericordia corporale e spirituale che
tutti dovremmo praticare. Perciò non c’è uniformità di giudizio e di
valutazione sul suo magistero, perché non c’è convergenza sul vangelo
dell’amore e della carità, quello che Paolo ci ha richiamato nel brano della
seconda lettura di oggi, presentandoci il canto dell’amore con la bocca ed il
cuore di nostro Signore.