Nona meditazione del 18 ottobre 2019 (mattino)
Paolo e la donna in 1Cor11,2-16 e in Gal3,28
Gli scritti paolini testimoniano il ruolo attivo delle donne nelle prime comunità cristiane. Esse hanno predicato, insegnato e fondato chiese domestiche, diffondendo dovunque il profumo del vangelo.
Preghiera iniziale
Oh, nessun cuore umano può comprendere
ciò che Tu prepari a coloro che ti amano.
ora sei mio e non ti lascerò mai più.
dovunque voglia condurmi il cammino della mia vita.
tu sarai al mio fianco.
Nulla potrà mai separarmi dal tuo amore.
Introduzione
Gli spunti delle prossime meditazioni vengono dalle lettere paoline, ma il tema non verte sulla concezione della donna in Paolo apostolo – argomento che torna puntualmente alla ribalta quando si affronta quello più ampio del ruolo della donna nella vita e nel ministero della Chiesa – si concentra invece sul ruolo di collaborazione nell’evangelizzazione che alcune donne hanno avuto nella chiesa paolina. Quindi non “Paolo e la donna”, ma “Paolo e le donne collaboratrici nel suo ministero apostolico”.
Tuttavia i due aspetti, quello specifico e quello più generale, sono naturalmente interdipendenti, ed è indispensabile partire ricostruendo, o almeno abbozzando il relativo contesto storico, che è stato molto studiato e approfondito negli ultimi anni, anche grazie all’impulso delle sollecitazioni femministe nella teologia e nell’esegesi biblica[1].
Riguardo all’approccio femminista nell’esegesi biblica, la Pontificia Commissione Biblica nel testo L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, così si esprime:
«Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia, nella storia delle origini cristiane e nella Chiesa. … La sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune interpretazioni correnti, che erano tendenziose e miravano a giustificare il dominio dell’uomo sulla donna»[2].
A questo proposito Paolo può essere letto e interpretato in modi opposti, sia come uno dei principali detrattori del ruolo e del ministero della donna nella famiglia e nella Chiesa, sia come il primo sostenitore del principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna.
Gli sforzi esegetici non sono riusciti ad oggi a risolvere del tutto la tensione che sembra emergere tanto dai suoi scritti quanto da quelli dei suoi lettori.
Va detto, comunque, che i testi più ostili nei riguardi delle donne si trovano nelle lettere deuteropaoline e pastorali (Col ed Ef, 1-2 Tm e Tt). Esse riflettono un’epoca diversa da quella in cui visse san Paolo, certamente posteriore, e i loro autori manifestano preoccupazione di fronte alle crisi emergenti di carattere dottrinale. Anche la considerazione della donna risente di questo clima di apprensione, così che per favorire la pace e l’ordine all’interno della Chiesa alcuni pensano opportuno “restringere il suo campo di azione”. Il dramma è che il contenuto delle lettere deuteropaoline[3] ha di sicuro influito nell’interpretazione discriminante del ruolo della donna nella Chiesa e nella sua storia.
Non dobbiamo aspettarci di trovare negli scritti paolini il pensiero di Paolo sulle donne: l’Apostolo non ha mai avuto intenzione di affrontare tale argomento. Ciò non significa che non valga la pena vagliare tutti gli elementi presenti; anzi, proprio dal loro studio, inquadrato nella ricostruzione dell’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, emerge la ricchezza e la novità di alcune intuizioni dell’Apostolo.
La nostra riflessione verterà sui testi
paolini considerati autentici (1Ts, 1-2 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm); in essi le
affermazioni di Paolo sulle donne sono espressione delle conseguenze
sovvertitrici del Battesimo, che realizza ogni unità in Cristo e conferisce
pari dignità alle persone, al di là delle differenze etniche (Giudei e Greci), sociali
(schiavi e liberi) e sessuali (uomini e donne).
I brani che fanno più problema si trovano nella prima lettera ai Corinti. Il
primo è quello in cui egli tratta dell’acconciatura delle donne nelle riunioni
di preghiera (11,2-16), il secondo è quello in cui ordina alle donne di tacere
nell’assemblea (14,33b-35).
Leggiamo i testi
1Cor11,2-16
2 Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. 3 Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. 4 Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto manca di riguardo al proprio capo. 5 Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. 6 Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
7 L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. 8 E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; 9 né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. 10 Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. 11 Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; 12 come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. 13 Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? 14 Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, 15 mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. 16 Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.
1Cor14,33b-35
Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso di parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
Commento
Il brano di 1Cor 11,2-16 è conosciuto con il titolo “il velo delle donne”; la difficoltà maggiore è data soprattutto dal v. 10, che letteralmente è così tradotto: “per questo la donna è tenuta ad avere un’exousia (potere, autorità) sul capo a causa degli angeli”. Una delle ipotesi interpretative più convincenti dell’espressione greca “εξουσιαν εχειν” è la traduzione con “avere sotto controllo”, il resto va inteso in questo senso: “per questo (quando la donna profetizza – cfr. v. 5) deve avere sotto controllo la sua acconciatura”; cioè le donne quando fanno interventi pubblici nella comunità (profetizzano o pregano in assemblea) devono tenere un abbigliamento e un’acconciatura decorosa, in particolare devono coprirsi la testa.
Paolo con questa indicazione non intende semplicemente regolare il modo di comportarsi (e di abbigliarsi) delle donne, ma soprattutto contrastare il tentativo di annullare le differenziazioni sessuali naturali di cui la capigliatura potrebbe essere una manifestazione. In un ambiente di facili costumi come quello della città di Corinto (in cui era diffusa anche l’omosessualità), questo tentativo poteva favorire una certa indistinzione e promiscuità, con gravi conseguenze sul versante morale ma anche su quello della testimonianza.
Paolo, in fondo, ammette che la donna possa parlare nelle assemblee (1Cor11,4), conserva quindi il dono, riconosciuto nell’Antico Testamento, della profezia, ma la profetessa non deve perdere le caratteristiche che contrassegnano, nella cultura del tempo, la sua femminilità.
In 1Cor14,34 però poi scrive: “le donne nelle assemblee tacciano”, rafforzato subito appresso con: “infatti non è permesso loro di parlare”; e al v. 35 si legge: “è infatti sconveniente per una donna parlare nell’assemblea”. Come risolvere il problema?
Si possono avanzare diverse ipotesi.
La prima, da non scartare a priori, sottolinea la diversità di soggetti o di tipo di discorso tra i due brani. In 1Cor11 si tratterebbe di un parlare orante e profetico delle donne, in 1Cor14 Paolo rimprovererebbe il parlare (λαλειν) disordinato e confusionario di alcune donne, che disturba e certo non edifica l’assemblea. D’altra parte la stessa ingiunzione a tacere Paolo la usa nei confronti del glossologo se nell’assemblea non c’è chi è capace di interpretare il suo parlare in lingue con il Signore (1Cor14,28).
Un’altra ipotesi vede in questi versetti problematici la citazione di uno o più detti diffusi nella comunità da alcuni che erano ostili alla partecipazione attiva delle donne nelle assemblee e nella vita comunitaria. È evidente che Paolo non li appoggia. In questo caso vale il principio che non bisogna assolutizzare il testo e identificarlo con il pensiero di Paolo. L’Apostolo, infatti, diversamente dal pregiudizio diffuso che lo considera un misogino, si colloca sulla stessa scia di Gesù, contando per la sua opera di evangelizzazione su una partecipazione molto diffusa di donne. Inoltre, in 1Cor14,33-35, parlando delle donne in assemblea, lascia intendere che sono presenti con gli uomini.
Nella lettera ai Gal3,28, Paolo, in un contesto in cui si parla dell’essere “figli di Dio” proprio dei battezzati, rivestiti di Cristo e appartenenti a lui, esprime il superamento di ogni differenza, anche quella di genere.
Gal 3,26-29:
Non c’è giudeo né greco;
non c’è schiavo né libero
non c’è maschio e femmina
tutti voi infatti uno siete in Cristo Gesù.
Si tratta di un testo o inno battesimale diffuso nelle prime comunità cristiane, in cui ci sono tre binomi formati da opposti che trovano in Cristo il proprio superamento[4].
Il primo binomio è dato dalla dicotomia etnica, culturale e religiosa: giudeo / greco; il secondo da quella sociale-classista: schiavo / libero; il terzo dalla dicotomia sessuale maschio / femmina.
L’autore usa nella lingua originale greca due neutri αρσεν και θηλυ, cioè maschio e femmina, invece che uomo / donna. per sottolineare come l’essere in Cristo (attraverso la fede e il battesimo) è ora il criterio nuovo che dà forma ai rapporti interpersonali e conferisce uguale dignità alle persone, indipendentemente da tutti i condizionamenti, anche quelli sessuali.
Le categorie, espresse dai binomi, non possono più avere un influsso discriminante sulla persona.
L’affermazione di Gal3,28 è dunque il principio del superamento delle discriminazioni che costituisce uno dei fondamenti essenziali del cristianesimo: da questo punto non si può più tornare indietro.
Vengono annullate tutte le differenze, o, meglio, le contrapposizioni: culturali, sociali e sessuali.
In quest’ultimo caso l’Apostolo non vuole affermare che tra i cristiani si verifichi il superamento culturale della differenza dei generi. Su questa differenza in Israele si era fondata una pretesa superiorità dell’uomo sulla donna, tanto che Giuseppe Flavio scrive: “La donna, come dice la Legge, è in ogni caso inferiore all’uomo”.
Resta il fatto che Paolo propone una nuova visione del rapporto uomo/donna, che non è soltanto di quella di mera uguaglianza davanti a Dio, bensì di una parità di funzioni a livello comunitario, nel senso che uomini e donne sono tutti membri a pieno titolo delle comunità cristiane nel e mediante il battesimo.
È interessante infine confrontare l’affermazione di Gal3,28 con il testo di 1Cor 7[5]: qui Paolo tratta dello status in cui si viene chiamati e propone un triplice binomio: il “circonciso/incirconciso” del v. 18 corrisponde a giudeo/greco; l’altra corrispondenza è data dai termini schiavo/libero dei vv. 21-22; l’ultimo binomio, “non c’è più né uomo né donna”.
Quest’ultimo binomio è innovativo rispetto alla cultura circostante e applica a casi concreti proprio il principio di uguaglianza e di reciprocità tra l’uomo e la donna espresso chiaramente in Gal 3,28 e viene messo in pratica nella vita della comunità.
Questi testi paolini vanno situati nel contesto storico-culturale, sociale nel quale sono sati scritti, tenendo conto anche delle situazioni contingenti, non si possono perciò considerare normativi per il nostro tempo.
Preghiera conclusiva
Signore, ti diciamo grazie di ciò che siamo;
siamo donne innamorate di te.
ti chiediamo di concederci la tua luce affinché, attraverso essa,
possiamo contribuire ad illuminare il mondo.
Decima meditazione del 18 ottobre 2019 (pomeriggio)
Le donne nella chiesa delle origini evangelizzano
Le donne nella Chiesa delle origini hanno svolto importanti ruoli nella Chiesa, tra questi anche l’evangelizzazione.
L’evangelizzazione è una missione importante nella Chiesa, e come papa Francesco scrive nell’Evangelii Gaudium, essa richiede un impegno generoso ed è opera di Dio;
12. … Gesù è «il primo e il più grande evangelizzatore». In qualunque forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio, che ha voluto chiamarci a collaborare con Lui e stimolarci con la forza del suo Spirito. La vera novità è quella che Dio stesso misteriosamente vuole produrre, quella che Egli ispira, quella che Egli provoca, quella che Egli orienta e accompagna in mille modi. In tutta la vita della Chiesa si deve sempre manifestare che l’iniziativa è di Dio, che «è lui che ha amato noi» per primo (1Gv4,10) e che «è Dio solo che fa crescere» (1Cor3,7). Questa convinzione ci permette di conservare la gioia in mezzo a un compito tanto esigente e sfidante che prende la nostra vita per intero. Ci chiede tutto, ma nello stesso tempo ci offre tutto.
Preghiera iniziale
O Gesù, pastore unico del tuo gregge,
Tu che hai chiamato tutti noi
per farci pescatori di uomini,
rendici consapevoli del compito che ci hai affidato.
Spalanca a noi gli orizzonti del mondo intero,
facci attenti al muto supplicare
di tanti fratelli e sorelle
che nel buio ti cercano chiedendo
luce di verità e calore di amore.
Per il tuo preziosissimo sangue,
sparso per noi e per la salvezza di tutti,
donaci di rispondere alla tua chiamata,
così da poter essere, pur con i nostri limiti,
gioiosi e fedeli annunciatori del tuo Vangelo.
Ti chiediamo ciò per l’intercessione di Maria,
Madre Tua e nostra, alla quale affidiamo
questa nostra preghiera.
Amen.
Introduzione
Paolo nelle sue lettere menziona numerose persone. Riferisce anche i loro nomi che, accompagnati spesso da brevi titoli e osservazioni, si sono rivelati preziosi per ricostruire il quadro della situazione storica delle prime comunità cristiane. Nomina anche delle donne e fornisce dettagli utili circa il loro ruolo nel ministero apostolico.
Lettera ai Filippesi
Nella lettera ai Filippesi, si rivolge a due donne, Evodia e Sintiche, esortandole ad essere concordi nel Signore (4,2); prega un suo fedele compagno di aiutarle a riconciliarsi, poiché esse hanno combattuto per il vangelo insieme con lui, al pari di altri collaboratori tra cui Clemente: “i loro nomi sono scritti nel libro della vita” (4,3).
2 Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. 3 E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita. (Fil4,2-3)
Evodia e Sintiche hanno lottato insieme all’apostolo per la diffusione del vangelo, hanno perciò esercitato, almeno in parte, lo stesso ministero dell’apostolo. Nei loro confronti Paolo usa espressioni di ammirazione, probabilmente hanno avuto un ruolo di primo piano nella conduzione della comunità dei Filippesi[6].
Qualcosa di simile si può supporre anche di Cloe (1Cor1,11)[7] e soprattutto della “sorella Apfia”, unica donna citata esplicitamente da Paolo tra i destinatari di una sua lettera, subito dopo aver menzionato Filemone e prima di Archippo (Fm2)[8]. Forse Apfia era la moglie di Filemone? È probabile comunque che condividesse con gli altri due destinatari un ruolo di guida nella comunità che si radunava nella sua casa[9].
Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i riferimenti a donne collaboratrici nell’apostolato, a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti.
Leggiamo il testo
Rm16,1-16
1Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: 2 accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso.
3 Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. 4 Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano. 5 Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.
Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia. 6 Salutate Maria, che ha faticato molto per voi.
7 Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. 8 Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. 9 Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. 10 Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. 11 Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. 12 Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. 13 Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. 14 Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. 15 Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. 16 Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo.
In Rm16,1-16 Paolo nomina ventinove persone,
riportando il nome solo di ventisette, tra cui otto sono donne. Le due persone
senza nome sono la madre di Rufo e la sorella di Nereo; vv. 13.15)
La prima donna nominata, al vv.1.2, è Febe, detta
nostra sorella, che è diacono della chiesa di Cencre… patrona di molti e anche di me stesso (vv. 1-2).
Al v. 3 Paolo saluta Prisca ed Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla), è identificata come collaboratrice, insieme al marito era impegnata nell’evangelizzatrice.
In At18,26, emerge chiaramente il suo esempio di coadiutrice di Paolo e di maestra nella fede addirittura di un apostolo come Apollo. È anche interessante notare un fatto insolito e perciò ancor più significativo: delle sei ricorrenze totali nel NT di “Prisca/Priscilla”, quattro volte è anteposta ad Aquila suo marito (Rm 16,3; At 18,18. 26; 2Tm 4,19)[10] , è al secondo posto in 1Cor 16,19 e in At 18,2[11]. Questo è un segno eloquente della preminenza e della celebrità di questa donna nella chiesa delle origini.
Al v. 6 di Rm16, Paolo saluta Maria “che si è data molto da fare per voi”. Di questa donna non abbiamo altri dati nell’epistolario paolino né nel resto del NT. Potrebbe essere un nome di origine ebraica, corrispondente di Mariam o di Miriam; le iscrizioni romane fanno pensare anche a un nome di origine romana proveniente dalla famiglia gentilizia di Marius. A causa delle scarse attestazioni su questa donna non possiamo dire nulla sulla sua identità e sulla sua origine, ma soltanto evidenziare che per lei e per alcune altre donne citate nella lettera ai Romani Paolo sottolinea l’impegno e la fatica nell’evangelizzazione[12].
Al v. 7 chiede di salutare “Andronico e Giunia… eccellenti tra gli apostoli”; di Giunia parleremo successivamente.
Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che “si danno da fare per il Signore”; e “la carissima Perside”, anch’essa “si dà molto da fare per il Signore”.
Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre; al v. 15 nomina infine Giulia e la sorella di Nereo.
Se prestiamo attenzione al numero delle persone menzionate in Rm16,1-16, ci accorgiamo che le donne sono circa un terzo degli uomini, tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un ruolo importante di queste donne nelle prime comunità cristiane, non solo di matrice paolina; la comunità di Roma, infatti, alla quale è indirizzata la lettera non è stata fondata da Paolo.
Le donne menzionate svolgono tutte un ruolo di primo piano in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo, tutte “si sono date da fare per il Signore”.
S. Schreiber sostiene che il verbo κοπιαω – faticare (usato in Rm 16 per quattro donne), indichi non soltanto attività apostoliche generiche, ma un ruolo nella guida carismatica della comunità[13].
Rm16 dunque può davvero essere considerata la più gloriosa attestazione di onore per l’apostolato della donna nella chiesa primitiva. Un biblista, J.D.G. Dunn, scrive:
“Per quanto riguarda il ministero femminile nelle chiese paoline la posizione non potrebbe essere più chiara. Le donne prevalgono nel ministero. Basta prendere il capitolo finale [di Romani], i dati parlano da soli”[14].
In Rm 16,1-2, Paolo menziona Febe (Rm6,1-2), sorella nella fede, diacono e patrona:
1 Vi raccomando (συνιστημι) Febe, nostra sorella (αδελφην), che è al servizio (διακονον) della Chiesa di Cencre: 2 accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto (προστατις) molti, e anche me stesso.
Il capitolo 16 di Romani inizia con la raccomandazione di Febe a quella comunità.
Il nome Febe non è ebraico né cristiano, appartiene alla mitologia greca. Febe era una Titana figlia di Urano e Gaia; il nome significa “splendente, luminosa”; questa donna, quindi, era una pagana, originaria di Cencre – una delle due località portuali presso Corinto, situata nella parte orientale dell’istmo. L’origine del nome e la provenienza fanno pensare che Febe fosse una donna benestante, benefattrice verso i cristiani. Paolo la nomina per prima, probabilmente perché era lei incaricata di recapitare la lettera. In soli due versetti ne tratteggia al figura, che occupa un posto particolare nel suo cuore e all’interno della comunità.
Pitta, nel suo commento a Romani, suppone che in quanto latrice della lettera, Paolo affida a Febe il compito di spiegarne il complesso contenuto[15]. Ella è sorella e diaconessa, appartiene ai santi ed è protettrice.
Il motivo delle raccomandazioni è tipico dell’epistolografia classica; le credenziali, invece, sono anche insolite, perciò, interessanti.
La prima credenziale non crea difficoltà, la qualifica di sorella esprime l’appartenenza alla stessa famiglia di fede, è una caratteristica specifica cristiana. Il pronome possessivo “nostra” (ημων) è una prova del fatto che era già condiviso il concetto di comunione anche tra membri di chiese sparse nelle varie parti del mondo.
L’appellativo διακονος: Febe è un diacono della chiesa di Cencre, utilizzato al maschile anche se si tratta di una donna ha suscitato molte discussioni. Si tratta del ministero del diaconato che sarà progressivamente definito in 1Tm3,8-13, per gli uomini e per le donne? O di un semplice attributo per definire il servizio in generale che Febe svolge nella comunità?
È opportuno precisare che διακονος è un sostantivo che si usa sia al maschile che al femminile, non esiste la forma femminile di διακονος, perciò la traduzione italiana diaconessa non è corretta; il servizio del diaconato, inoltre, non deve essere inteso come ministero distinto dagli episcopi e dai presbiteri o dagli apostoli, poiché Paolo utilizza spesso questo termine per indicare il servizio a favore degli altri e di Dio[16].
Epifanio nel Panarion (376) precisa che le donne diacono non esercitano un ministero presbiterale, ma assistono nel battesimo delle donne. In epoca patristica esse erano “semplici cooperatrici che si occupavano prevalentemente dell’istruzione delle giovani e delle opere di carità”[17],
Tuttavia, il collegamento di questo titolo per Febe con la Chiesa che è in Cencre fa pensare che non svolge un generico “servizio”; il genitivo oggettivo, “della chiesa di Cencre”, parla a favore di una funzione ben determinata e riconosciuta all’interno di quella comunità; non si tratta dunque di un servizio generico che riguarda soltanto la carità per i poveri e per i bisognosi, ma include l’evangelizzazione e la predicazione[18]. Febe, d’altro canto, è invitata da Paolo per spiegare il contenuto complesso della lettera ai Romani e non per sostenere economicamente i destinatari della lettera. In ogni modo, è la prima donna diacono nella storia del cristianesimo.
Paola esorta i cristiani di Roma a rendere buona e generosa accoglienza a Febe; lei appartiene ai santi, ossia a coloro che sono stati santificati per mezzo dello Spirito e attraverso l’appartenenza a Cristo. È un’accoglienza da compiere nel Signore, a motivo della reciproca appartenenza a lui. Per questo l’ospitalità verso Febe sia generosa, disposta ad andare incontro a qualsiasi necessità.
Per sostenere la sua raccomandazione, Paolo ricorda la generosità di Febe nei confronti di molti credenti e anche nei suoi stessi confronti: Febe è stata disponibile verso tutti.
L’ultima credenziale, προστατης, indica, infatti, il ruolo di guida e presidenza (cf. Rm 12,8; 1Ts 5,12).
Προστατης, nella letteratura ellenistica, è colui che presiede a una comunità o garantisce il bene degli altri. È un protettore legale. Il termine corrispondente femminile, le poche attestazioni in papiri e iscrizioni (del secondo e terzo secolo) lasciano intendere che abbia lo stesso significato del maschile. Nel nostro caso, l’appellativo attribuito a Febe fa pensare che lei, a causa della sua posizione sociale, svolge una funzione di patronato e di garanzia giuridica per molti credenti di fronte alle autorità civili.
Probabilmente ospita nella sua casa la comunità cristiana di Cencre; nella sua generosità offre ospitalità e protezione ai missionari itineranti, come Paolo e i suoi collaboratori.
Paolo perciò chiede ai Romani di accogliere e assistere Febe come lei ha fatto con i fratelli e le sorelle in Cristo, sia quelli appartenenti a quella comunità locale, che quelli di fuori che si trovavano a passare nella sua casa.
Insomma, i Romani, nel ricevere e leggere la lettera di Paolo a loro destinata, si trovavano in presenza di una donna (probabilmente latrice dello scritto) di grande prestigio umano e cristiano, sorella nella fede, ministro della sua comunità di Cencre, benefattrice generosa e patrona per chiunque dei fratelli si fosse trovato a passare nella sua casa.
Il fatto che Febe sia stata una benefattrice generosa e abbia accolto molti nella sua casa fa pensare che la comunità avesse subito la minaccia delle persecuzioni, che spingeva i credenti a nascondersi e ad agire, talvolta, in clandestinità. Febe emerge, allora, ancora più luminosa come figura coraggiosa, capace di mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare i suoi fratelli e le sue sorelle.
Conclusione
Dalla sintetica indagine circa la triade di sostantivi con cui Febe viene descritta, si comprende come nell’ambito dell’evangelizzazione Paolina esistessero spazi per una missione incisiva della donna nella comunità delle origini.
La lettera ai Romani mette in luce due elementi della figura di Febe:
- L’amore per la Chiesa, manifestato dalla disponibilità al servizio e all’evangelizzazione e diffusione della Parola;
- La natura totalizzante del suo impegno, caratterizzato da accoglienza, cura e protezione.
Si tratta di due elementi che qualificano l’azione della donna nella Chiesa e fanno trasparire la sua femminilità generativa[19]. Non è difficile dunque prendere coraggio.
Preghiera finale
O Maria, al mattino della Pentecoste,
Tu hai sostenuto con la preghiera l’inizio dell’evangelizzazione,
intrapresa dagli apostoli sotto l’azione dello Spirito Santo.
Con la tua costante protezione continua a guidare anche oggi,
in questi tempi di apprensione e di speranza,
i passi della Chiesa (e delle donne nella Chiesa) che,
docile al mandato del suo Signore,
si spinge con la “lieta notizia” della salvezza
verso i popoli e le nazioni di ogni angolo della terra.
Orienta le nostre scelte di vita, confortaci nell’ora della prova,
affinché, fedeli a Dio e all’uomo,
affrontiamo con umile audacia i sentieri misteriosi dell’eterno,
per recare alla mente ed al cuore di ogni persona
l’annuncio gioioso di Cristo Redentore dell’uomo.
O Maria, Stella dell’Evangelizzazione, cammina con noi! Amen.
Giovanni
Paolo II
[1] Per una opinione ragionata sul contributo dell’esegesi femminista, cfr. M. Perroni, “Lettura femminile ed ermeneutica femminista del NT; uno status quaestionis”, RivBiblIt 41 (1993) 315-339; Id., “Una valutazione dell’esegesi femminista: verso un senso critico integrale”, StPatav 43 (1996) 67-92 (dove si prende in esame soprattutto il testo di Lc 10,38-42).
[2] L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1993, pp. 59-62; (p. 61).
[3] Che naturalmente restano a far parte del canone
neotestamentario e per molti cristiani continueranno ad essere considerate
“paoline”. Occorre però distinguere da questo materiale
“post-paolino” i testi che hanno sicuramente Paolo come autore, come
ad esempio Ef e Col, dove parla della sottomissione della moglie al marito (Ef
5,22; Col 3,18); in 1Tm 2,11-15 leggiamo la pericope più forte nella
“limitazione di spazio” alle donne: per loro solo silenzio e sottomissione. La
citazione di tutti i testi sul tema è davvero lungo.
[4] Per avere un confronto al negativo, si può citare la preghiera che l’ebreo recitava tre volte al giorno: “Ti ringrazio che non mi hai fatto pagano / che non mi hai fatto donna / che non mi hai fatto ignorante”; Queste tre berakhot sono attribuite a R. Judah ben Elai (circa 150 d.C.) in t. Ber. 7.18 e j. Ber. 13b, oppure a R. Meier (suo contemporaneo) in b. Menahi. 43b. Ma anche nel mondo Greco esistevano analoghe espressioni di “gratitudine”, ad es.: “che sono nato un essere umano e non una bestia, uomo e non donna, greco e non barbaro”, attribuite a Talete e a Socrate in Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 1,33; a Platone nel Marius di Plutarco (46,1); cf. R.N. Longenecker, Galatians, cit., ad loc..
[5] 1Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa
buona per l’uomo non toccare donna,
2
ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno
abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. 3
Il marito dia alla moglie ciò che le è
dovuto; ugualmente anche la moglie al marito.
4
La moglie non è padrona del proprio corpo, ma
lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio
corpo, ma lo è la moglie.
5
Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di
comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate
insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. 6 Questo
lo dico per condiscendenza, non per comando.
7 Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno
riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro. 8
Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa
buona per loro rimanere come sono io;
9
ma se non sanno dominarsi, si sposino: è
meglio sposarsi che bruciare.
10 Agli sposati ordino, non
io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – 11e qualora si separi,
rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la
moglie. 12 Agli
altri dico io, non il Signore: se un fratello ha la moglie non credente e
questa acconsente a rimanere con lui, non la ripudi; 13e una donna che abbia il marito non credente, se questi
acconsente a rimanere con lei, non lo ripudi. 14Il marito non credente, infatti, viene reso santo dalla
moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente;
altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, ora invece sono santi. 15Ma se il non credente
vuole separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non
sono soggetti a schiavitù: Dio vi ha chiamati a stare in pace! 16E che sai tu, donna,
se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie? 17 Fuori di questi casi, ciascuno
– come il Signore gli ha assegnato – continui a vivere come era quando Dio lo
ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese. 18Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo
nasconda! È stato chiamato quando non era circonciso? Non si faccia
circoncidere! 19 La
circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta
invece l’osservanza dei comandamenti di Dio. 20Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu
chiamato. 21 Sei
stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero,
approfitta piuttosto della tua condizione! 22Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un
uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da
libero è schiavo di Cristo. 23Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi
degli uomini! 24Ciascuno, fratelli,
rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato. 25 Riguardo alle vergini, non ho
alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto
misericordia dal Signore e merita fiducia. 26 Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle
presenti difficoltà, rimanere così com’è. 27Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti.
Sei libero da donna? Non andare a cercarla. 28 Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende
marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita,
e io vorrei risparmiarvele. 29Questo vi dico,
fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie,
vivano come se non l’avessero; 30quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che
gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non
possedessero; 31quelli che usano i
beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di
questo mondo! 32Io vorrei che foste
senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore,
come possa piacere al Signore; 33chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo,
come possa piacere alla moglie, 34e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la
vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e
nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come
possa piacere al marito. 35Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un
laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza
deviazioni. 36 Se
però qualcuno ritiene di non comportarsi in modo conveniente verso la sua vergine,
qualora essa abbia passato il fiore dell’età – e conviene che accada così –
faccia ciò che vuole: non pecca; si sposino pure! 37Chi invece è fermamente deciso in cuor suo – pur non
avendo nessuna necessità, ma essendo arbitro della propria volontà – chi,
dunque, ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. 38In conclusione, colui
che dà in sposa la sua vergine fa bene, e chi non la dà in sposa fa meglio.
39 La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. 40 Ma se rimane così com’è, a mio parere è meglio; credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio.
[6] Cf. W. Cotter, “Women’s Authority Roles in Paul’s Churches: Countercultural or Conventional”, NT 36 (1994) 350-372; ritiene che delle 13 donne menzionate da Paolo, almeno 6 devono aver avuto ruoli da leader, cf. nota 2, p. 350.
[7]Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. (1Cor1,11)
[8] 1 Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al carissimo Filèmone, nostro collaboratore, 2 alla sorella Apfìa, ad Archippo nostro compagno nella lotta per la fede e alla comunità che si raduna nella tua casa. (Fm1-2):
[9] Cf. R. Penna, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, Città Nuova, Roma 2002, p. 171.
[10] 8Crispo, capo della sinagoga, credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia; e molti dei Corinzi, ascoltando Paolo, credevano e si facevano battezzare…26Egli cominciò a parlare con franchezza nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. (Rm18,8-26)19 Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesìforo. (2Tm 4,19).
[11] 19 Le Chiese dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa. (1 Cor16,19). … 2 Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro (At18,2).
[12] Cfr. A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, 2001, p.519.
[13] Cfr. S. Schreiber, “Arbeit mit der Gemeinde”, cit., p. 204. 209. 224.
[14] J.D.G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, pp. 568-569.
[15] Cfr. A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001, pp. 514-515.
[16] Al tempo di Paolo, il ruolo e i compiti di tipo ministeriale-gerarchico erano in piena evoluzione e non c’era una comprensione comune; quindi anche la portata del ministero di diacono, dipendeva in ogni caso dai contesti locali e dalle necessità delle singole chiese.
[17] Cfr. S. Schreiber, cit., p.106.
[18] Paolo con il termine diacono solitamente, designa sé stesso o i suoi collaboratori nell’esercizio del ministero apostolico (cfr. ad es.: 1Cor 3,5; 2Cor 3,1-11; Fil 1,1; cfr. Rm 15,8: Cristo diacono dei circoncisi)
[19] Cfr. AA.VV., San Paolo e le donne, Vita e pensiero, Milano, 2019, pp. 19-20.