Quinta meditazione del 16 ottobre 2019 (mattino)
La Cananea – Il coraggio della fede
La preghiera di inizio è di Itala Mela (1904-1957), una giovane donna, nata il 28 agosto 1904 a La Spezia in una famiglia di ineccepibile rettitudine, ma estranea ai valori religiosi. Dopo i sacramenti dell’iniziazione cristiana ricevuti per consuetudine, trascurò la vita cristiana e si dedicò alla preparazione culturale, distinguendosi per impegno e intelligenza.
La morte del fratellino Enrico, avvenuta a soli 10 anni nel 1920, la gettò nella disperazione e nella negazione della fede. Per sopravvivere si immerse totalmente negli studi e nella ricerca, conseguendo brillanti risultati.
La vigilia dell’Immacolata del 1922, invitata a una celebrazione eucaristica, si arrese a Dio. Iniziò un doloroso travaglio spirituale, che la condusse alla conversione radicale, e sperimentò il coraggio delle fede.
L’incontro con Cristo trasformò la sua vita.
La storia di Itala ha in comune con la storia della Cananea l’esperienza del dolore e il coraggio di fidarsi di Gesù, intuendo, pur senza conoscerlo, che è l’unico che può salvare.
Preghiera iniziale
Aiutami a camminare
con i miei piccoli passi
dietro a te.
Gigante che sei venuto impetuosamente verso di me;
e se vedi che incespico
prendimi fra le tue braccia.
Introduzione
La Cananea, donna senza nome, esce dalla sua terra e va incontro a Gesù per strappargli la grazia della salvezza sua e di sua figlia.
Viaggiare è camminare è camminare verso l’orizzonte,
incontrare l’altro, conoscere, scoprire e tornare più ricchi
di quando si era iniziato il cammino (Luis Sepulveda)
L’episodio è narrato da Matteo (Mt 15,21-28) e da Marco (Mc 7,24-30). I due racconti forniscono dettagli differenti ma utili per la comprensione dell’evento.
Leggiamo il testo.
Mt 15,21-28
In quel tempo 21Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. 22Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». 23Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». 24Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». 25Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». 26Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 27«È vero, Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 28Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.
Il commento
L’evangelista Matteo situa l’episodio della guarigione della figlia della Cananea dopo la discussione sulle tradizioni farisaiche e quindi l’insegnamento di Gesù su ciò che è puro e su ciò che è impuro, teso a mostrare che la discussione dei farisei su questo tema è un modo per snaturare il culto divino, è soffermarsi sulla forma e sottrarsi alle leggi del cuore di Dio. «Questo popolo» dice Gesù «mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me».
Gesù, dopo l’aspra discussione con scribi e farisei, parte dalla Giudea e si ritira verso le regioni di Tiro e di Sidone, territorio pagano, che il testo qualifica come cananeo. Si dirige dunque verso luoghi dai Giudei classificati come impuri.
Tiro e Sidone sono infatti due città costiere fenicie. Tiro è posta su un’isola rocciosa, distante 500 metri dalla costa, molto bella dal punto di vita paesaggistico, ma biasimevole dal punto di vista morale. Le due città sono menzionate ripetutamente insieme nell’AT quali destinatarie di oracoli di sventura a causa dei molti peccati da esse commessi (Is23,1s; Ger25,22). Secondo Giuseppe Flavio, la gente di Tiro era ostile ai Giudei.
La novità non interessa solo la geografia, ma anche l’interlocutrice di Gesù: dalle autorità giudaiche si passa ad una donna, per di più pagana, che viene proprio dalle regioni di Tiro e Sidone.
Leggendo i vangeli, di primo acchito si ha l’impressione che le donne siano considerate subordinate o inferiori agli uomini. In realtà, nella cerchia più stretta di Gesù, ci sono diverse donne che lo seguono, si tratta di vere e proprie discepole. In questo caso però la donna protagonista del brano non è una discepola, ma una pagana.
La donna ha compiuto un esodo, un esodo che ha comportato di superare il pregiudizio, la mentalità dei suoi conterranei avversa ai Giudei, per andare verso Gesù; probabilmente ne aveva sentito parlare; fa un atto di fede e gli va incontro per rivolgergli una preghiera accorata. Ha una figlia malata e sa che solo Gesù ha il potere di guarirla; grida il suo dolore e le sue urla sono strazianti quanto il dolore che porta dentro. Ha bisogno, anche lei, della salvezza che viene da Gesù, sa di non esserne degna, e si accontenta di cibarsi solo delle briciole che cadono dalla tavola dove mangiano i figli.
È significativo che nel vangelo di Marco (Mc7,24-30) l’episodio della Cananea sia incastonato tra la prima e la seconda moltiplicazione dei pani. Il pane è per i figli; i cagnolini non siedono alla mensa con i figli, si accontentano di cibarsi delle briciole perché sanno che anche le briciole hanno il potere di sfamare e saziare. Il pane è il corpo di Gesù spezzato per tutti perché la salvezza è per tutti.
Torniamo al testo.
22Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio».
La donna va incontro a Gesù e si mette ad urlare. L’evangelista descrive la scena facendo percepire l’insistenza della richiesta della donna, che appare anche importuna perché è insopportabile e stressante udirla, al punto che i discepoli proprio per questo supplicano Gesù di esaudirla e mandarla via presto.
Il grido della donna è in parte indice di turbamento, smarrimento, paura: ella implora pietà. Ma nel rivolgersi a Gesù usa due appellativi: «Signore» e «Figlio di Davide», due espressioni della professione di fede nelle prime comunità cristiane, quella ellenistica la prima, quella giudaico-cristiana la seconda. La donna pagana, in questo modo, riconosce e proclama la messianicità di Gesù e manifesta quella fede che la maggioranza dei Giudei rifiuta; ed esprime l’universalità della fede.
23Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!».
Gesù si mostra indifferente, come se la donna non esistesse e le sue urla fossero un rumore di fondo trascurabile. L’atteggiamento di Gesù sconcerta i discepoli, che si avvicinano e lo implorano di esaudirla, mossi da compassione, o forse semplicemente dal fastidio di avere una persona che li segue gridando. L’atteggiamento di Gesù sconcerta anche chi legge il vangelo.
Egli inizialmente mostra chiusura nei confronti della donna: perché? Forse perché ella proviene dal territorio Siro-fenicio, una regione difficile, covo di tutte le impurità che sono un abominio per Israele? Gesù poco prima aveva precisato che ciò che esce dalla bocca e viene dal cuore rende impuro l’uomo: forse la donna cananea è impura non solo perché proviene da una regione pagana, ma probabilmente anche perché il suo cuore è impuro?
24Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». 25Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». 26Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 27«È vero, Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 28Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.
Nonostante l’atteggiamento iniziale, Gesù poi apre un dialogo con la Cananea, un dialogo che si articola secondo due differenti registri. In un primo momento egli motiva la sua resistenza alla richiesta della donna perché i destinatari del suo mandato sono le «pecore perdute di Israele» e non gli stranieri, i lontani, e paragona la donna a un cagnolino. Utilizza la metafora dei cagnolini e dei figli per spiegare che solo i figli, cioè gli ebrei, sono gli unici destinatari del banchetto messianico: l’appellativo “cane” era utilizzato dagli ebrei per indicare i pagani; i cani non mangiano il pasto.
La Cananea capisce, non solo non si offende: accetta il ruolo assegnatole da Gesù e lo sa utilizzare per commuovere il cuore di colui che aveva riconosciuto come Messia.
27«È vero, Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
La donna non si scoraggia, la risposta di Gesù non la spaventa, non la coglie di sorpresa, anzi rafforza la sua richiesta, e il coraggio di chiedere ancora scioglie la durezza delle parole del Signore.
28Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante
sua figlia fu guarita.
Gesù è affascinato dalla fede umile ed efficace della Cananea, la definisce grande, così il moto di compassione per la donna si trasforma in guarigione istantanea per la sua piccola perché le briciole dei figli hanno il potere di saziare anche i cagnolini.
Il testo ci consegna alcuni insegnamenti:
- La qualità della fede permette alla Parola di attualizzarne la potenza di operare.
- C’è differenza tra l’attitudine tipicamente maschile di risolvere le questioni anche delicate con immediatezza quasi istintiva e la pazienza tipicamente femminile di insistere e non arrendersi nella ricerca di soluzioni adeguate ai problemi.
- La salvezza che viene dal Cristo valica i confini ristretti: è per tutti; Giudei e Greci, Liberi e schiavi, uomini e donne, grandi e piccoli. La salvezza è rivolta a tutti, non ci sono esclusi.
- Ma anche: quanto è importante il coraggio che viene dalla fede, non si lascia condizionare da un contesto ostile, si nutre dell’amore del bene per gli altri.
- E quanto è importante avere il coraggio di mettersi in ascolto dell’altro/diverso per allargare i nostri orizzonti, di aprire orecchie e cuore: (è stato vero per tutti i personaggi di questa pericope, e anche per noi lettori di oggi).
- Trasformare il fastidio in opportunità.
La Cananea esce dalla sua terra, prende l’iniziativa di andare incontro a Gesù, compie un esodo, varca la barriera simbolica tra il puro e l’impuro. Ha una figlia posseduta dal maligno, ama tanto sua figlia e la vuole salva. Per questo motivo trova in sé stessa la forza vitale che le permette di uscire dal suo territorio; sfida i pericoli e accetta il rischio di essere respinta. Purché la figlia viva niente altro importa. Ha fede in Gesù. Ha sentito parlare di lui, del suo potere di scacciare i demoni e di guarire i malati, per questo motivo esce dalla sua terra e si avventura in territorio nemico e va incontro a colui che riconosce come il Messia. Sa che Gesù è la persona giusta, sa di bussare alla porta buona e grida senza fermarsi. La sua tenaciaè già convinzione di essere ascoltata.
Questa donna è una roccia di certezza, è una vedetta posta su alture, dove è la sola a vedere che il risultato le sarà favorevole e ciò che lei vede verrà presto visto da tutti. È una donna posseduta, pure lei, ma dalla persona di Gesù e dalla fede in lui.
Non desiste dal seguire Gesù e i discepoli, si pone davanti a loro, è lei che offre un insegnamento. Si prostra e con umiltà chiede aiuto. Chiama Gesù prima “Figlio di Davide”, riconoscendolo come Messia atteso, e poi “Signore”, in una vera invocazione di fede. Non critica la lettura di Gesù, ma la ascolta, la fa sua, e attende.
È la sua radicalità incrollabile che farà dire a Gesù: grande è la tua fede! Questa stessa fede permette alla donna di invocare pietà come l’orante del Salmi e riconoscere in Gesù il Signore.
E si direbbe che, grazie alla fede e al coraggio[1] di questa donna, Gesù comprende che il suo messaggio ha una portata più ampia della sola casa di Israele: la Cananea con finezza sa cogliere la grandezza e la sovrabbondanza che ha di fronte, non chiede di ricevere qualcosa a discapito di altri, ma semplicemente di condividere. Sa che quelle briciole, come i cinque pani spezzati per cinquemila (cfr. Mt 14,13-21) sovrabbondano per chi non trattiene per sé.
La sua fede è grande perché non si ferma al già noto, ma ha la forza di far cambiare lo sguardo, e fa di lei la portatrice di una buona notizia.
Ormai il confine è stato varcato e noi possiamo restare un po’ perplessi perché il gesto proprio di questa donna ha una portata enorme: ci dice che il tempo della salvezza è vicino per tutti.
La prima donna a comprendere che la salvezza è vicina è stata Maria, la madre di Gesù. Anche lei coraggiosa nella fede, intraprese il cammino che la condusse fino alle alture del Golgota per poi scoprire che il sepolcro dove era stato sepolto suo figlio è vuoto: con lui dalla morte si passa alla vita, dalla malattia alla guarigione, dalle tenebre alla luce. Nella fede la sua luce.
Mi sembrano al riguardo significative le parole di Itala Mela e le propongo come conclusione:
«Mentre nella tempestosa notte si riproduce nella creatura l’agonia del Getsemani e del Calvario, sale dal profondo del suo cuore il grido supremo dell’amore, spoglio di ogni luce sensibile e di ogni conforto, dell’amore che crede, spera ed ama nelle tenebre, nella desolazione e nell’aridità. Con Gesù l’anima resterà in questa tragica passione e salirà con lui agonizzante, abbandonato, condannato, crocifisso, verso la carità nuda, verso l’Amore puro, che è l’Amore essenziale: cioè verso la Trinità. Questa notte profondissima che sembra inghiottire è il trionfo della luce»[2].
Preghiera finale
Con la Cananea ripetiamo ad ogni invocazione spontanea:
Signore, Figlio di Davide, abbi pietà di me
Sesta meditazione del 16 ottobre 2019 (pomeriggio)
L’emorroissa e la figlia di Giairo – Il dono della guarigione
La pericope del vangelo di Lc8,40-56 pone al centro della scena due donne accomunate da una malattia che porta alla morte. Nei tre vangeli sinottici le loro storie sono incrociate, incuneate l’una nell’altra.
Gesù opera nei confronti di entrambe un miracolo di guarigione che non è solo fisica, ma anche interiore. Ridona loro la dignità che probabilmente non sapevano di avere.
La più giovane rischia di morire a 12 anni, mentre l’emorroissa è impedita da un flusso di sangue che la disturba dallo stesso numero di anni: 12.
Preghiera iniziale
Se afferro la mano che mi sfiora,
trovo il sostegno e la sicurezza assoluti
Signore le onde sono tempestose
E la notte è oscura,
non la vuoi tu rischiarare
per me che veglio sola?
..
Noi non abbiamo orecchi per il tuo lieve bussare,
perciò devi battere con il martello greve.
Dopo una lunga notte albeggerà il mattino,
il tuo regno nascerà con un parto doloroso.
Introduzione
La vicenda dell’emorroissa e della figlia di Giario è narrata dai tre vangeli sinottici. L’evangelista Luca, attento alla condizione delle donne[3], descrive la vicenda focalizzando maggiormente l’attenzione sulle due protagoniste[4] e l’evangelista Marco, nonostante il suo stile sobrio ed essenziale, dedica all’episodio ampio spazio.
Si tratta, infatti, di due miracoli compiuti da Gesù che rivelano caratteri insoliti, originali. Intanto le persone malate sono due donne, una di 12 anni e l’altra malata da 12 anni[5]. La coincidenza degli anni relativi all’età e alla durata allude alla stessa tipologia del male che affligge le donne in qualsiasi periodo della loro vita. C’è continuità tra la malattia della bambina e quella dell’emorroissa: l’adulta è la bambina senza nome, cresciuta insieme alla sua malattia.
Alcuni autori classificano la malattia delle due donne come malattia sessuale, altri la considerano conseguenza di un amore malato, quello del padre.
Leggiamo il testo.
Lc8,40-56
40 Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui. 41 Ed ecco venne un uomo di nome Giàiro, che era capo della sinagoga: gettatosi ai piedi di Gesù, lo pregava di recarsi a casa sua, 42 perché aveva un’unica figlia, di circa dodici anni, che stava per morire. Durante il cammino, le folle gli si accalcavano attorno. 43 Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, 44 gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò. 45 Gesù disse: «Chi mi ha toccato?». Mentre tutti negavano, Pietro disse: «Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia». 46 Ma Gesù disse: «Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me». 47 Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l’aveva toccato, e come era stata subito guarita. 48 Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata, va’ in pace!».
49 Stava ancora parlando quando venne uno della casa del capo della sinagoga a dirgli: «Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro». 50 Ma Gesù che aveva udito rispose: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata». 51 Giunto alla casa, non lasciò entrare nessuno con sé, all’infuori di Pietro, Giovanni e Giacomo e il padre e la madre della fanciulla. 52 Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: «Non piangete, perché non è morta, ma dorme». 53 Essi lo deridevano, sapendo che era morta, 54 ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: «Fanciulla, alzati!». 55 Il suo spirito ritornò in lei ed ella si alzò all’istante. Egli ordinò di darle da mangiare. 56 I genitori ne furono sbalorditi, ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto.
Analisi e commento del testo
Luca inserisce la pericope nel capitolo 8, che inizia con alcuni versetti, tre per la precisione, dedicati al seguito femminile di Gesù. Ci informa che mentre Gesù andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno, c’erano con lui i dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, Giovanna moglie di Cuza, amministratore di Erode, Susanna e molte altre. Tra queste “molte altre” possiamo immaginare ci fossero anche le due donne: la bambina e l’adulta, di cui non conosciamo il nome.
La figlia di Giairo
La storia inizia con una richiesta di aiuto. Gesù, al ritorno dalla sua missione evangelizzatrice, è accolto dalla folla che era in attesa di lui. Viene da lui un uomo di nome Giairo, uno dei capi della sinagoga, un personaggio importante, uno che conta. Questo uomo si getta ai piedi di Gesù e lo prega di recarsi a casa sua perché l’unica figlia che ha, di circa dodici anni, sta per morire.
Interessante notare che un ebreo, un capo della sinagoga, si getta ai piedi di Gesù e lo supplica di guarire sua figlia.
La bambina doveva essere affetta da una malattia incurabile. Il brano non permette di dedurre con certezza la tipologia della malattia, dai versetti traspare solo l’angoscia del padre. Potremmo avanzare l’ipotesi che la bambina fosse vittima dell’amore eccessivo del padre, che la privava delle sue energie vitali. L’evangelista la denomina con il nome del padre, forse un indizio sintomatico delle attese affettive che il padre aveva sulla figlia.
Gesù non interviene subito, apparentemente non si cura dell’insistenza del capo della sinagoga; intanto giunge uno della casa di Giairo per comunicargli la morte della figlia. Solo a questo punto Gesù rassicura il padre angosciato e gli dice: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata».
Egli afferma che la bambina non è morta, dorme. È il sonno, probabilmente, di una bambina spaventata, che ha timore di crescere, e nel momento in cui la vita esplode lei rifiuta di vivere, una bambina depressa, senza prospettive future.
Quante bambine vivono drammi simili?
Mi piace però accostare il sonno della bambina a quello della sposa del Cantico dei Cantici (5,8), perché l’apertura alla vita, il desiderio di vivere e l’attesa contraddistinguono ogni donna, piccola, giovane, adulta, anziana.
La donna, colei che genera alla vita, anche nei momenti più tristi e sfavorevoli alla vita custodisce, accesa, la speranza; qualche volta è una luce fievole, ma c’è, ed è in grado di rianimarsi.
Leggiamo il testo Ct5,8
Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! È il mio diletto che bussa:
“Aprimi, sorella mia, mia amica,
mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne”.
La bambina, come la sposa del Cantico, dorme, ma il suo cuore veglia perché ella vuole vivere, desidera avere un futuro, aspetta di essere guarita. Gesù lo sa, si avvicina alla ragazzina stesa nel letto, non le impone le mani ma le prende le sue e, senza tirarla, senza obbligarla, le rivolge l’invito: «Fanciulla, alzati. La vita ritornò in lei e si alzò all’istante. Egli ordinò di darle da mangiare. I genitori ne furono sbalorditi».
La ragazza nel suo sonno attende una voce che la svegli dal suo torpore e la riporti alla realtà e appena Gesù le dice: «Fanciulla, alzati!», si alza all’istante, da sola, esce dalla depressione e inizia a vivere. La sua attesa di essere guarita e salvata non è stata delusa.
L’emorroissa
La vicenda della guarigione della figlia di Giairo è interrotta dall’episodio dell’emorroissa. Una donna malata, da dodici anni costretta a vivere segregata, lontana dalla comunità, perché la sua malattia la rende impura[6]; non può frequentare nemmeno i luoghi di culto perché potrebbe contaminarli. La sua emorragia è considerata la inevitabile conseguenza del suo peccato: era diffusa l’idea che il male morale generasse il male fisico.
La gravità della malattia è sottolineata dalla durata, dodici anni: dodici è un numero che indica pienezza.
Come intendere questa malattia?
In un certo senso Può essere interpretata in continuità con la malattia della bambina.
I drammi affettivi e gli abusi sessuali subiti nella tenera età, se non vengono curati possono condurre alla morte della persona, alla perdita della sua dignità e identità; generano la paura degli altri, vuoto, solitudine e il rischio di cadere in un cerchio diabolico, nel pensiero che per uscirne si debba svendersi, sacrificarsi sempre più.
L’emorroissa è disposta a dare di tutto e a fare di tutto pur di liberarsi dalla propria dolorosa situazione. Forse anche lei ha atteso che qualcuno la prendesse per mano e le restituisse la vita, il senso della vita, la bellezza delle relazioni e dell’amore.
È possibile anche un’altra lettura della storia di questa donna.
Il sangue nella Bibbia è il simbolo della vita. Perdere sangue vuol dire perdere la vita. Ogni donna è abituata a perdere sangue con il flusso mestruale e non ha paura di perdere altro sangue per donare la vita. La perdita del sangue è inscritta nella sua struttura psicofisica. Questo fatto, a livello esistenziale può generare, in qualche donna, un modo sbagliato di concepire la femminilità, ma anche più in generale un modo sbagliato di considerare l’amore, la comunione, il dono.
In ogni caso la donna, protagonista della pericope, vuole guarire e prima di incontrare Gesù, ha consultato diversi medici e ha speso tanti/tutti i suoi soldi. L’evangelista Luca scrive:
(L’emorroissa) aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando. (Mc5,25-26).
È dunque una donna che non accetta il male, che non si arrende, non desiste. Ha cercato di guarire ma ciò che ha trovato fin qui è stato in realtà causa di sofferenza maggiore, di ulteriore impoverimento. Si è rivolta a tanti medici spendendo tutto il suo patrimonio, si è solo impoverita senza trovare soluzioni. Il sangue se ne va. I medici diventano più ricchi, lei invece diventa sempre più povera.
La donna, constatata l’impotenza dei medici, si rivolge a Gesù. Dal testo sembra trasparire che ella non solo è affetta da emorragia, ma soffre anche una forte crisi di identità, può sperare solo in un miracolo. La sua malattia la rende inaccettabile proprio nella sua femminilità, non può più essere una moglie e una madre, e questo per una donna ebrea è tutto. La sua sofferenza è soprattutto intima, riguarda la sua dignità umana, la sua accettazione sociale, è una sofferenza terribile, a ben pensarci.
Spera in un miracolo, vuole essere salvata da Gesù, ma è abituata a fuggire perché si vergogna del suo limite.
Rimane perciò immersa nella folla, dove deve cercare di farsi spazio. Non si ritiene degna di niente, le basta toccare un pezzo del vestito di quell’uomo. Sente che la sua impurità a contatto di Gesù sarà trasformata e diventerà santità, se lo tocca sarà santificata. Ed ecco il primo passo verso la guarigione: è questo suo potente desiderio di toccare Gesù, il coraggio di avvicinarsi a lui.
Lo fa in modo fuggitivo, furtivo, senza dirgli nulla, si nasconde e si confonde nella folla, tocca da dietro il lembo del suo mantello. Compie un gesto temerario: la sua colpa potrebbe diventare molto grave perché rende impuro un uomo senza che questo lo sappia. La sua fede però è grande, schietta, affronta e scavalca anche trasgressione. Gesù è quasi costretto ad agire; ecco, lo tocca[7] e guarisce.
Vorrei soffermarmi un attimo sull’esigenza di toccare che tutti avvertiamo. Essa è legata alla nostra corporeità, il corpo è una dimensione essenziale dell’essere umano. Non Esistiamo senza il corpo, che ci permette di muoverci, parlare, guardare, ascoltare, annusare, assaporare…. I sensi ci mettono in contatto con la realtà, con il mondo che ci circonda; gioiamo della bellezza del creato, ci sentiamo parte della terra, dell’universo. Avvertiamo la nostra grandezza e la nostra piccolezza anche attraverso l’esperienza del nostro corpo. Anzi, la forma prima e fondamentale di conoscenza è il contatto con l’altro.
A volte toccare l’altro ci permette di sentire la sua vicinanza e ci dona sicurezza. Abbiamo anche bisogno di vedere e di toccare il divino. Pensiamo alle icone, le statue, ma anche il pane e il vino eucaristico, elementi naturali concreti che produciamo e di cui ci cibiamo, ma che per il mistero dell’Incarnazione diventano anche segno reale della presenza di Dio con noi.
La donna ha bisogno di toccare semplicemente un lembo del mantello per sentirsi in comunione con il divino, con Dio, per passare dall’impurità alla santità. Quel gesto temerario è un gesto di fede grande, di comunicazione con Dio. La fede permette il contatto diretto e personale con Gesù.
Gesù avverte la potenza che esce da lui, avverte proprio quel tocco, in qualche modo/sicuramente “diverso” dagli altri. Si guarda attorno e chiede a chi lo ha toccato di farsi avanti. E lei, di fronte all’inaspettato interesse di Gesù, si fa avanti, timorosa e tremante: che cosa accadrà ancora? avverte che Dio si sta manifestando a lei?
Gesù compie in lei una seconda guarigione: la fa uscire dalla massa, cerca il suo volto tra coloro che lo schiacciano, glielo restituisce: si coinvolge in questo rapporto, la guarda negli occhi, “sa” che da lui è uscito qualcosa.
Questo faccia a faccia fa pensare alla visitazione, quando il figlio nel grembo di Elisabetta esulta di gioia, Giovanni e Gesù si parlano direttamente. Ora l’emorroissa e Gesù si parlano reciprocamente, entrambi donano il proprio sangue. Il sanguinamento della donna è un lamento: un po’ alla volta la sua vita se ne va con il sangue che essa perde. Gesù dona il suo sangue e blocca il flusso di sangue della donna: blocca il flusso del nostro sangue, dona la sua vita affinché noi possiamo vivere per sempre.
Gesù la guarisce. «Figlia la tua fede ti ha salvata, vai in pace». Gesù loda la fede della donna, quella fede che la reintegra nella comunità dei credenti. La chiama figlia perché nessuno prima d’ora si era preso cura di lei, nessuno l’aveva veramente amata come figlia, sorella, amante, madre.
L’amore guarisce la donna.
L’unico mezzo che può guarire le persone è l’amore: una relazione completamente indipendente e libera dalle questioni di degnità e indegnità, indipendente perfino dalla questione della purezza o della impurità, semplicemente una mano che uno può tendere senza essere rifiutato, semplicemente un contatto che riempie il vuoto che ogni essere umano sente in sé.
La guarigione, della quale soltanto la donna è testimone, non è solo fisica: è anche assoluzione dei peccati, è dono della salvezza globale che Gesù le accorda per la sua fede. La donna è reintegrata nella comunità dei fedeli, entra a far parte del Regno di Dio che si sta realizzando, è davvero e tutta salvata.
La bellezza di questo brano secondo me non sta nel miracolo in sé, ma in Gesù che cerca il volto di lei. Sarebbe più “conveniente”, in termini di popolarità, tralasciare questa donna, che in fondo ha avuto ciò che voleva, per recarsi speditamente alla casa di Giairo, dove tenere un bel discorso e poi guarire pubblicamente la figlia di lui; ed invece egli interrompe il suo cammino quasi per avvisare: “badate bene! A me interessa la fede di ognuno di voi, anche del più misero. E mi interessa che stia bene davvero, non solo nel corpo”. La mette al centro e dice che egli è venuto proprio per toccare quelli come lei. Gesù non ci propone un incontro con il lembo del suo mantello, con un oggetto, un toccasana, un talismano, ma con lui. Non si accontenta di darci alcune regole di buon comportamento e qualche dritta qua e là, ma si sporca con noi, con la nostra realtà. Non ci sono argomenti vietati tra noi e lui, non ci sono tabù o cose che è meglio lasciare fuori. Gesù già ci conosce, ma vuole che ci facciamo conoscere fino in fondo, e vuole che quando parliamo con lui non procediamo per formule fatte da altri, ma ci giochiamo fino in fondo scavando dentro di noi e tirando fuori anche le fatiche, i dubbi, le vergogne ed i desideri più grandi e nascosti che ci portiamo dentro.
Preghiera finale
Tu sei lo spazio: racchiudi e custodisci il mio essere.
Abbandonato da te affonderebbe nell’abisso del nulla da cui tu l’hai tratto alla luce.
Tu più vicino a me di me stessa, più intimo del mio stesso intimo
Eppure imprevedibile ed inafferrabile. (Edith Stein)
[1]Coraggio: da cuore; virtù consistente nella fortezza d’animo, propria di chi compie consapevolmente e razionalmente azioni che comportano grave pericolo, e si distingue da ogni atteggiamento impulsivo preso sotto la spinta di emozioni o per sconsideratezza
[2] A. M. Cànopi, Con il cuore di madre. Vocazione e missione della donna, p. 48.
[3] Per tutto il vangelo di Luca e anche nella sua successiva opera, gli Atti degli Apostoli, le donne sono un seguito importante, sono ricordate continuamente in positivo, sia per le loro mansioni, e sia soprattutto per la dignità sociale ed umana che viene loro riconosciuta. Basti pensare alla figura di Maria (dall’annunciazione alla discesa dello Spirito Santo nel cenacolo), ad Elisabetta, la profetessa Anna, la vedova di Nain, la peccatrice che lava i piedi di Gesù con le proprie lacrime, all’ospitalità di Marta e Maria, la vedova dei due spiccioli, e poi le donne che per prime scoprono la tomba vuota ed annunziano la resurrezione ai discepoli.
Nella società ebraica la donna non poteva ricoprire responsabilità pubbliche, valeva nella misura in cui faceva figli. In tale contesto comprendiamo il coraggio di un testo come quello che stiamo leggendo: Luca infatti è l’unico evangelista che fa menzione del seguito femminile di Gesù di città in città, un seguito, si badi bene, non di inservienti assoldate unicamente affinché servissero il maestro ed i discepoli maschi, ma di vere e proprie discepole, guarite nell’incontro personale con Gesù (Luca 8,1-3).
[4] Le due donne del racconto di Luca mostrano alcune caratteristiche comuni. Un primo elemento è dato dal fatto che due donne non hanno un nome proprio, quasi fosse inutile, entrambe sono definite non per quello che sono, ma per come gli altri le vedono, occupano il centro della scena. Gesù interviene nella loro vita e trasforma la malata in una “figlia” e la figlia di Giairo in una “fanciulla”.
Un secondo elemento comune tra le due donne è il fatto che Gesù in entrambi i casi non compie il miracolo davanti alla folla. Il miracolo avviene in modo silenzioso ed invisibile. Nessuno si accorge dell’emorroissa che “guarisce” per il tocco del mantello di Gesù, nessuno si accorge che la fanciulla “dorme”.
[5] La ripetizione dell’età dice che la seconda ha attraversato una parentesi sessuale che assomiglia a una seconda infanzia, questa volta forzata. Per i contemporanei di Gesù questa faccenda di sangue è alquanto sospetta. Secondo la legge ebraica, la donna nel tempo delle sue mestruazioni è impura, e lo diventa ogni persona che essa tocca. Finché dura questa perdita rimane l’impurità. Il sangue esprime la vita, perderlo significa esporsi alla morte. Dunque si tratta di Una donna impura, giorno e notte da 12 anni. Privata dalla relazione sessuale e dalla maggior parte delle relazioni sociali abituali, era meglio tirare dritto e non fermarsi davanti a una donna che ti rendeva impuro.
Marco accorda a queste due donne maggiore spazio ed è sorprendente in un evangelista noto per la sua concisione.
[6] Leggiamo nel Lv15,19-30 le prescrizioni che riguardano il flusso mestruale: “Chiunque la toccherà sarà considerato impuro”.
[7] Entrambe le due guarigioni avvengono per contatto fisico.