Io sono la porta delle pecore.
PRIMA LETTURA: At 11,1-18
Dio ha concesso anche ai pagani che si convertano perché abbiano la vita.
SALMO: (Sal 41 e 42)
L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente.
Oppure
Alleluia, alleluia, alleluia.
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita a l’abbiano in abbondanza».
Gv 10,1-10
Oggi, continuiamo a considerare una delle immagini più belle e più note della predicazione di Gesù: il buon Pastore, il suo gregge e l’ovile. Tutti abbiamo presente la figura del buon Pastore, che abbiamo contemplato fin dall’infanzia. Un’immagine che era molto cara ai primi cristiani e fa parte dell’arte sacra del tempo delle catacombe. Quante cose ci evoca quel giovane pastore con la pecora ferita sulle sue spalle! Molte volte ci siamo visti noi stessi rappresentati in quel povero animale.
Non è da molto abbiamo celebrato la festa di Pasqua, e ancora una volta abbiamo ricordato che Gesù non parlava in linguaggio figurativo quando diceva che il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore. Realmente lo fece, la sua vita fu il pegno del nostro riscatto, con la sua vita comprò la nostra; grazie a questa decisione, noi siamo stati riscattati; «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo» (Gv 10,9). Qui troviamo la manifestazione del grande mistero dell’amore ineffabile di Dio che raggiunge questi estremi inimmaginabili per salvare ogni creatura umana. Gesù porta il suo amore fino all’estremo, fino al punto di dare la propria vita
Secondo la pratica pastorizia in uso nella Palestina di Gesù, più greggi di pastori diversi confluivano alla sera in un unico recinto controllato da un guardiano. Al mattino i pastori tornavano a prendere le proprie pecore per portarle al pascolo e in questa circostanza, per agevolare la selezione, ogni pastore ricorreva ad un particolare richiamo vocale che il proprio gregge era addestrato a riconoscere.
Nella prima similitudine del brano che stiamo leggendo il recinto assicura una protezione da ladri e briganti che cercano di scavalcare la recinzione per uccidere le pecore, senza passare dalla porta controllata dal guardiano. Ma è anche un luogo di reclusione che evoca l’oppressione religiosa imposta al popolo dai farisei.
Da questa reclusione il pastore, che qui rappresenta la figura di Gesù, fa uscire le sue pecore per condurle verso la libertà e il nutrimento dei pascoli. A differenza degli altri pastori, Gesù non si fa riconoscere con il richiamo dalle sue pecore, ma è Lui stesso a chiamarle «ciascuna per nome». E invece di camminare come gli altri pastori dietro al suo gregge, per sospingerlo al pascolo e controllare che nessuna pecora si allontani, Gesù cammina davanti, lasciando libera ogni pecora di seguirlo o meno.
La seconda similitudine, presentata dall’evangelista come esplicativa della prima, appare in realtà decisamente innovativa. Gesù, infatti, assimila sé stesso non più al pastore ma alla porta. La sua azione salvifica che assicura «vita in abbondanza» non è più, quindi, legata ad un’azione continuativa, come la sequela della similitudine precedente, ma ad un unico atto: quello di attraversare la porta/Gesù! Ed è proprio questo l’atto che si compie chiedendo e ricevendo il sacramento del Battesimo.
Tra le parole di Gesù vorremmo suggerire un approfondimento su queste: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14), a maggior ragione, «le pecore ascoltano la sua voce (…) lo seguono, perché conoscono la sua voce» (Gv 10,3-4). È vero che Gesù ci conosce, ma possiamo dire noi che Lo conosciamo sufficientemente, che Lo amiamo e corrispondiamo come dovremmo?